(dalla raccolta Monologhi di ©Helena Paoli)
Mi chiamate da sempre con
mille nomi.
A volte sono donna.
Anfitrite, Belisama, Yemaja. Altre, invece, sono uomo. Kanaloa,
Varuna, Poseidone. Nei sogni mi venerate come una divinità. Ti
prego, conducimi lontano, dove ci sono solo onde e il dolore è un
brusio sotterraneo. Nelle preghiere mi temete, consumate le
labbra e le sillabe, vi genuflettete invocando altre illusioni, dammi
un mare calmo e fammi tornare a casa.
Insegnate ai vostri
figli a immergervi sotto la mia pelle, a cercare con mani avide pesci
che possano riempire il vuoto nella pancia, nella testa, o in quel
buco invisibile che vi squarcia il petto e v'impedisce d'essere
completi. Ma i vostri cuccioli ascoltano anche storie sussurrate
attorno al fuoco, racconti di tempeste furiose, navi inghiottite dal
buio, marinai un tempo dalle guance arrossate, ora divenuti ossa
lucenti.
Sono blu come i vostri
occhi, sono verde come i vostri prati, ho la stessa sfumatura
nerastra dei vostri incubi. Sono campo di battaglia, cimitero, premio
per il miglior offerente. Mi amate, mi calunniate, credete che io
esista solo perché voi avevate bisogno di me. Sono tutte bugie. Sono
tutte verità. Eppure, anche se siete fragili e contraddittori, io
ammiro voi esseri umani.
Sto imparando a
conoscere quelli della tua razza. O magari siete miei da sempre. Se
fossi come me, capiresti questo dubbio. Io non ho occhi che catturino
un istante del mondo, né orecchie che registrino i respiri di un
solo frammento di terra. Il tempo -questa nuvola porosa che ci
attraversa tutti, e che gli umani come te adorano tagliuzzare ed
etichettare- è un gioco banale. Tu lo percepisci come una linea,
perché il tuo corpo è progettato per essere un passeggero. Per me è
un punto, ragazzo. Io sono partenza, viaggio, meta.
Per questo siete tutti
insieme nel mio animo, per questo non siete nessuno. Se state
sfiorando la superficie della mia veste acquosa, allora io ho già
visto la vostra nascita e la vostra morte. E quella di vostro
fratello, di vostra madre, della ragazza che avreste potuto amare se
foste rimasti coi piedi sulla terra ferma. Non posso ascoltare ogni
dettaglio delle vostre storie, perché siete troppi, e complessi,
universi imprigionati da muscoli e tendini. Così finisco per
custodire gelosamente i particolari, la memoria di un sorriso, di
un'ambizione mai realizzata, di una passione travolgente. Siete
diversi, tuttavia vi assomigliate. Mi affascina questa vostra
contraddizione strutturale, ma, in fondo, è tutto ciò che conosco
dell'uomo.
E poi ci sei tu,
Telegono.
Ho sfiorato anime di
naufraghi, pirati, regine. Ogni cuore aveva una vibrazione unica.
Eppure riesco a cantare solo le tue note. Non so quando sei arrivato.
Prima che voi umani cominciaste a tessere scie di veleno sul mio
corpo? Dopo la strage di creature che hanno scelto me come rifugio, a
differenza della tua razza, che vuole essere pesce, uccello, leone,
foca, pipistrello?
Mi hai toccato, e il
coro di voci si è trasformato in un monologo. Hai creato una crepa,
e forse ora il mio tempo non è più un punto, ma un cerchio. Tu ti
ripeti, ragazzo in eterno, e io vedo coi tuoi occhi, esploro
finalmente il mistero dell'umanità. T'imparo a memoria. Finisco per
amarti.
Mi piacerebbe ascoltare
la tua risata spensierata di bambino. Tuttavia devo accontentarmi dei
tuoi occhi spietati di adolescente, riflessi in quelli antichi di chi
ti ha messo al mondo.
Devo andare, le
dici, e non t'importa che questa rabbia consumerà tutto quel che
sei.
Telegono, tua madre è
la protagonista di canti a mezza voce: Circe la strega, Circe la
figlia del Sole, Circe l'allieva di Ecate. Nessuna donna che vive nel
vostro tempo può gridare di voler essere come lei. I membri del tuo
sesso l'hanno già trasformata in uno dei volti del male, tentando di
emulare le metamorfosi che lei sa realizzare con erbe e vini. Non
temere però, arriveranno umani capaci di vedere la differenza tra
questi due incatesimi: tua madre non nasconde la verità sotto parole
pesanti come macigni, ma la libera da travestimenti più o meno
riusciti. Non è colpa di Circe se alcuni uomini, in fondo, sono dei
maiali.
Io sono la tua casa,
ti risponde, e tu lo sai, Telegono, che se andrai via la spezzerai.
Forse un tempo ha amato Odisseo, forse prima la sua vita era la
ribellione, ma adesso ha te, figlio, progetto, fonte di giovinezza
che la renderà immortale nel ricordo. Il tuo destino, però, è
scritto nel nome che porti: “Telegono”, “Nato lontano”.
Lontano da tuo padre.
Lui è la mia
identità, concludi, chiudendo il passato in un cassetto.
Di giorno lavori
incessantemente coi tuoi compagni d'equipaggio, soffochi nella fatica
la paura che ti brucia nel petto. Gli altri marinai ti guardano con
sospetto, non sei sicuro di poter tollerare la stessa ansia negli
occhi di tuo padre. Straniero, straniero, straniero. Anche se
il pensiero di Odisseo ti è familiare, probabilmente non sarà lo
stesso per lui. Circe non ne ha mai fatto un mistero: ci sono
un'altra donna e un altro figlio, le persone a cui tuo padre
appartiene. La consapevolezza del rifiuto ti fa tremare le mani,
quasi sbagli il nodo necessario a tenere ben spiegate le vele. La
rabbia ti aggredisce, perché nessuno ti ha mai insegnato a soffrire:
odi tua madre, prigioniera della sua stessa libertà, e detesti
quella famiglia speculare che ha attirato Odisseo come un magnete.
Cos'ha Telemaco più di te? Perché tu sei il figlio dell'avventura e
lui quello del ritorno?
Io ti preferisco di
notte, quando rinunci all'idea di te e ti concedi di essere Telegono.
Ripassi con costanza i nomi delle erbe che, mescolate, possono
guarire un'ustione o immobilizzare il cuore. Preghi una divinità
senza nome di trovare delle certezze, tu che sei un fascio di dubbi e
sangue, e fischietti una ninna nanna che tua madre ti cantava quando
non riuscivi a dormire. Esplori con gli occhi della mente la
vegetazione incontaminata della tua isola, sperimenti col ricordo le
sensazioni d'impotenza e catarsi che hai provato la prima volta in
cui hai guardato, dall'alto della vostra montagna, le nuvole nere che
si addensavano nel cielo, cariche di pioggia.
A volte conosco,
attraverso di te, una ragazza. Non la chiami mai per nome, ma ha la
pelle d'ambra e occhi duri come corteccia. Studi il suo corpo morbido
celato da veli sottili con la stessa perizia con cui osservi le tue
piante della vita e della morte. Ti porti una mano al petto se
avverti il suo profumo come quando scruti la tempesta in lontananza.
Correte scalzi nelle strade dell'isola -fantasmi di civiltà- e
spesso finisci per perderla di vista. Quando meno te l'aspetti la
ritrovi, per caso, nascosta in un anfratto buio o sui rami robusti di
un albero.
Non sei costretto a
venirmi sempre a cercare, ti sfida. Sa che non troverai le parole
giuste per distendere la vela dei tuoi pensieri.
Allora smetterò di
farlo, rispondi, anche se è la più deviata delle bugie. Non sai
amare, Telegono. Non è colpa tua. Tuo padre ti ha insegnato solo
l'assenza.
Quando la nave arriva a
Itaca, la ragazza con gli occhi di corteccia scappa dai tuoi
pensieri. Esiste solo Odisseo, il re dell'isola. I suoi sudditi ti
fermeranno per strada, riconoscendo nei tuoi occhi o nel tuo incedere
il loro sovrano? Nel momento in cui ti stringerà la mano, la sua
bocca si curverà in un mezzo sorriso come fa la tua? Nelle rughe
della sua fronte scavata dall'esperienza troverai te stesso?
Hai solo una vaga
percezione delle montagne dure che popolano l'orizzonte e della terra
sterile che non potrà accoglierti: uno sconosciuto ti aggredisce
alle spalle, facendoti rotolare sulla spiaggia sassosa. Accetti ogni
lieve ferita nella speranza che l'altro si fermi, che legga nei tuoi
tratti la nobiltà che dovrebbe temere. Ma il dolore continua, è
ovunque, lividi violacei fioriscono sul tuo corpo divenuto giardino.
Sei venuto a Itaca per
scorgere i confini di te stesso, non per lasciarti annullare da
qualcuno che ti odia senza motivo: qualcosa di torbido -un'oscurità
che ti aspetta da sempre, cresciuta con te senza che lo sapessi-
prende il sopravvento. Mentre il tuo viso viene tempestato di pugni,
hai la lucidità di tirare fuori il tuo coltello, quello che Circe
voleva nasconderti. Tenti come puoi di colpire l'altro, lo senti
ridere, ignaro del veleno in cui è stata immersa la lama, lo stesso
intruglio che adesso circola nelle sue vene e metterà fine alla sua
vita.
I colpi si fanno sempre
meno intensi, lo sguardo dello sconosciuto è annebbiato. Balbetta
alcune parole, e tu vorresti essere altrove. Come hai potuto rubare
gli ultimi pensieri di questa creatura a suo figlio? E mentre formuli
questa domanda, capisci l'ironia amara della tua esistenza. L'altro
si è accasciato all'indietro, il suo piede sporco è a pochi
centimetri del tuo viso. Un angolo di pelle è tagliato da una
cicatrice: Odisseo si è ferito in questo modo da giovane, durante
una battuta di caccia al cinghiale. Te l'ha raccontato tua madre
quando ancora parlava di lui.
Ti gira la testa. Forse
tutti quei colpi ti hanno privato della ragione. Questo pazzo non può
essere tuo padre. Non ha nulla di te, nulla della persona che
vorresti essere. Ti butti sul suo petto, in un impeto di rabbia o
disperazione. Senti che rantola qualcosa, poche sillabe: Il mare.
Voleva partire ancora, voleva prendere il tuo posto sulla nave. Gli
si rovesciano gli occhi, della schiuma gli si addensa in bocca. Non
hai con te l'antidoto.
Le parole sono
incastrate nella gola, perché sai che l'altro non potrà mai
risponderti. Ti porti le mani alla faccia, tiri, a cosa serve
questo corpo se non c'è più nulla a riempirmi, tu non eri tuo
padre, eri la ricerca di tuo padre, e ora non sei più niente.
Alla fine fai la sua
stessa scelta. Corri dentro di me, la superficie è lontana, hai
nascosto le pietre che prima ti hanno ferito sotto i vestiti, perché
ti trascinino sul fondo quando il tuo corpo si opporrà all'orribile
decisione della tua mente. L'aria finisce troppo presto, e gli occhi
stanchi del mondo ti si chiudono. Non combatti per respirare. Fa
troppo male essere Telegono. Così m'incontri, perso nel baratro del
tuo animo, e io non posso fare niente per salvarti. Non so se voglio
farlo. Forse dovresti stare qui con me, siamo entrambi invisibili e
complicati e troppo per gli uomini. Io posso essere tua madre,
tuo padre, la ragazza con gli occhi di corteccia, memoria di un altro
tempo o ombra di sogno.
Posso essere te.
Le pietre sono rotolate
giù una alla volta. Magari sei stato tu a mettere le mani sotto la
veste e a stracciarla con le ultime forze rimaste. O forse sono io
che ho scosso ogni parte di me, liberandomi per un attimo della
schiavitù che la mia condizione impone. Per una volta non ho voluto
restare a guardare.
Io ho molti nomi, e
anche tu ne meriti un altro. Trova una nuova casa, un altro scopo per
cui vivere, una ragazza vera da amare. Apprezza i dettagli della tua
quotidianità, fai tesoro del passato, realizza un'esistenza di
presenze. E quando avrai i capelli intessuti di vecchiaia e gli occhi
soddisfatti di chi è stato vivo fino in fondo, torna da me. Resterai
per sempre colui che mi ha mostrato perché la vostra razza mi
somiglia, perché finché voi ci sarete io non sarò una creatura
sola.
Voi umani siete gli
unici che, come me, contengono moltitudini.
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